La gente per bene, Francesco Dezio, Terrarossa Edizioni

Di Mariella Sivo

La gente per bene di Francesco Dezio, ediz. Terrarossa, è un finto reportage mascherato da diario, una “biografia di fatti non accaduti, inventati o deformati nel flusso della narrazione”.
Così scrive Francesco Dezio all’inizio del suo romanzo, in cui “luoghi ed aziende descritti sono trasposizioni narrative di eventuali realtà esistenti”.
L’io narrante è un personaggio che va raccontando, tra gergo e letterarietà, tra rabbia e ironia, la sua verità emotiva e non fattuale di disoccupato cronico, “di chi si è abituato a non avere niente, a ridurre i bisogni a zero”.
Non un’autobiografia, quindi, ma un memoir che va avanti e indietro nel tempo interiore per ricostruire gli eventi di un paese in necrosi, a crescita zero e cultura niente. Francesco, il protagonista, appartiene a quella generazione di choosy, sfigati, bamboccioni, poco occupabili, tanto per citare alcune delle carezze ministeriali riservate a tutti coloro che giornalmente incontrano difficoltà nella ricerca di un lavoro, privati di un reale appoggio da parte dello Stato.
Il titolo del romanzo si ispira ad una frase tratta da “Il lavoro culturale” di Luciano Bianciardi, autore che si inserisce nel filone della “letteratura industriale”, cui pure questo romanzo appartiene. La letteratura industriale nasce tra gli anni ‘50 e ‘60, periodo in cui la fabbrica, vista come inferno alienante, fa da controcanto rispetto alle magnifiche sorti dell’Italia del boom economico, paese che si riscopre a vocazione industriale. Ad eccezione del Futurismo, che esaltò gasometri e periferie, la maggior parte della letteratura, che si è occupata di nastri trasportatori e catene di montaggio, ha proposto un’interpretazione degenerante del fenomeno.
Francesco, padre imbianchino ed infanzia disfunzionale, parte dal narrare le vicende del nonno materno, ai tempi in cui il governo De Gasperi, per stroncare il malcontento del mondo bracciantile, varò un imponente progetto di riforma agraria, la più importante riforma del secondo dopoguerra, in base alla quale avvenivano contestualmente l’esproprio coatto ai latifondisti e la ridistribuzione delle terre ai braccianti. L’Ente Riforma Fondiaria fece poi costruire dei fabbricati, le case coloniche oggigiorno ridotte a ruderi. Ma “più che una speranza di miglioramento, lo Stato gli aveva regalato un ordinario diversivo al grattarsi i pidocchi: i lavori forzati. Hai voglia a spietrare!” Perché la Murgia non è altro che dune pietrose, un non-luogo, un niente erbaceo, che, nel silenzio delle istituzioni e dell’opinione pubblica, è caduta nel tranello dei soldi facili, ha ceduto alle lusinghe ecocompatibili del silicio in Salento e dell’eolico più a Nord. Il tutto con l’avallo delle politiche ecologiste di Vendola. Così scrive l’Autore, passando dalla coltivazione infruttuosa della campagna, dai redditi irrisori derivanti dal lavoro della terra, al “divanimperio” capeggiato dal Natalino Matucci, “l’uomo che il Wall Street Journal ha definito il Gianni Agnelli pugliese”, che ha saputo cogliere il momento propizio facendo del salotto il fulcro dell’ecosistema casalingo, ma che non è stato abbastanza furbo da cogliere i segnali della crisi economica. “La crisi c’è ma nessuno deve permettesi di nominarla. Va tutto a gonfie vele, anzi, è questo che devono credere tutti”, sostiene Matucci facendo il verso a Berlusconi, nano malefico, quando chiedeva “ma dove vedete la crisi se i ristoranti sono pieni?”.
E poi ci sono le vicissitudini personali di Francesco, a cominciare dalla scelta della scuola media secondaria: “non ero nato in una buona famiglia e questo bloccava qualunque strada scegliessi”.
È la storia dei subumani, di chi vive inviando per e-mail il curriculum alla ricerca di un impiego alle dipendenze di un imprenditore che, con tutte le leggi accazzisuoi che gli hanno preparato gli amichetti al governo, può fare soltanto una cosa: dargli una bella bastonata in testa.
Dezio denuncia una realtà lavorativa allucinante, alienante, l’assenza sul territorio di un’azienda vera. Ci si riduce, nel suo caso, di grafico meccanico, ad essere dei manovali del computer e basta.
È il destino dei vinti di verghiana memoria,per cui tutto il percorso “di maturando, laureando, specializzando, servirà solo per metterti a servizio di uno che si è fermato alla terza media” ed ha avuto la furbizia e la fortuna di metter su un’impresa specializzata e “produrre sempre la stessa cazzata destinata a svanire nel nulla”.
Un mondo del lavoro martoriato dalla piaga della flessibilità, dell’utilizzo improprio della Partita IVA e del contratto Voucher, strumenti che avrebbero dovuto incrementare l’occupazione grazie ai contratti poco vincolanti e meno costosi a livello previdenziale, ma che si sono rivelati mero strumento di risparmio da parte delle aziende, strumento di crescita del precariato, con l’aggiramento delle tutele valide per il lavoratore dipendete diretto.
L’Autore denuncia, inoltre, la presenza di redditi salariali bassi che compongono l’impossibilità di accumulare sufficienti risparmi per affrontare in sicurezza i periodi di disoccupazione “fino al prossimo inferno pseudo lavorativo”.
Ciò espone il lavoratore al rischio di dover accettare giocoforza lavori ancora più flessibili e meno remunerativi, pur di avere un reddito con cui provvedere alla propria sussistenza, creando una forma di retroazione che accentua ulteriormente i problemi derivanti dalla precarietà.
Un genere di scrittura, quella di Dezio, che trae linfa dai fermenti putrefattivi della società e manifesta la sua natura politecnica, il suo procedere di sponda con varie discipline: meccanica, informatica, economia, pubblicità, design, …
Un romanzo che è un’altalena narrativa e che vede prima affermarsi la civiltà tecnologica come soddisfacimento dei bisogni primari e poi le operazioni di smontaggio delle fabbriche. Una scrittura a metà strada tra invenzione e matrice documentaria, sicuramente con intenti di denuncia sociale, nonostante vi sia la consapevolezza, da parte dell’Autore, che soltanto la civiltà della fabbrica abbia potuto ridare dignità alle classi meno agiate, specie al Sud, restituendo quella che Calvino definiva “una via di libertà”, un’idea di lavoro quale veicolo di riscatto, di fuga da una condizione subalterna che si manifestava all’interno del panorama della questione meridionale, nelle ragioni conflittuali tra latifondo, riforma agraria ed emigrazione.
Dezio descrive una realtà che cambia pelle, si modifica, prefigura la definita trasformazione del lavoro fino alla crisi profonda di oggi, in cui il tema della flessibilità fa rima con precarietà, in cui i partiti politici sono distaccati dalla base popolare, sono vuoti centri di potere, in cui l’egoismo metodologico delle banche incatena. Cosa resta da fare? Trincerarsi nel bunker virtuale di un individualismo debole, consegnarsi alle logiche dell’homo oeconomicus o spendere la vita su Facebook, sperando che la politica recuperi gli antichi legami con i sogni?
Il protagonista oppone resistenza al tentativo da parte del sistema di rendere gli individui numeri, utensili, riconosciuti solo per il grado di techné posseduta, non aderisce al modello di comunità abitata da individui massificati, “atomi sociali senza avvenire” citando Natalia Ginzburg in “Lessico famigliare”. Racconta il mondo del lavoro dal di dentro, dall’intestino, scegliendo “il perimetro aziendale come luogo fisico ed elettivo del male”, un tetro capannone fordista lontano anni luce dagli spazi umanistici dell’olivettismo, che voleva la fabbrica produttrice di bene, non solo di beni. Appare come una testimonianza eloquente di un’esistenza condotta in modo ribelle e disordinato, fuori dagli schemi comunemente accettati, ai margini di una società che non si cura dell’individuo, che fagocita coloro che non si arrendono e chiunque non si adegui alle necessità della finanza e della produzione sfrenata che alimenta in modo abnorme l’accumulo di ricchezza, i consumi che finiscono per diventare vani e fini a se stessi.
Francesco è contrario alla filosofia dell’accontentarsi perché ciò significherebbe amplificare l’immobilità sociale e le diseguaglianze, nonostante i disagi, il malcontento, la frustrazione riconosciuta nel riempire tutte le ore disponibili postando cazzate su Facebook.
La gente per bene è un romanzo scomodo, picaresco e incazzato, come lo ha definito Antonio Moresco. È una ribellione contro l’establishment politico-culturale, obbedendo all’esortazione di Michel Houellebecq di affondare il coltello negli argomenti di cui la gente non vuol sentir parlare, perché bisogna essere abbietti per essere veri.
Lo stile è anticonformista, capace di far sorridere mentre dice qualcosa di serio e grave. Stile aspro, diretto, talvolta così crudo da sfiorare i limiti della sgradevolezza avvertibile sul piano fisico, privo di edulcorazioni, estremamente accurato nella scelta lessicale. È uno stile utile per dire quello che devi dire (Bukowski). Dezio utilizza la forma del linguaggio parlato in forma scritta, il gergo della strada, animandolo in periodi brevi e concisi, non banali, che lasciano spazio al contesto, riducendo al minimo le descrizioni.

La gente per bene: ritratto (pugliese) di una generazione in crisi

di Giuseppe Di Matteo

La gente per bene: ritratto (pugliese) di una generazione in crisi

Radionorba Online

L’io narrante oscilla tra autobiografia e finzione. Il tono, volutamente caustico, si sposa a una scrittura tagliente, che asseconda i pugni (letterari) nello stomaco di Chuck Palahniuk e il radicalismo di William Burroughs. La gente per bene di Francesco Dezio, edito da Terrarossa (207 pp., 15 euro), è un’opera dalle mille sfaccettature e suggestioni. Lo stile, asciutto ed essenziale, ricorda la vena di certi autori americani della beat generation; ma si percepisce anche un omaggio ostentato ai padri nobili della letteratura industriale, filone che dal secondo dopoguerra non ha mai smesso di raccontare il mondo del lavoro dall’interno (nel romanzo risuonano soprattutto gli echi de La vita agra di Luciano Bianciardi e del Memoriale di Paolo Volponi, ma non manca anche qualche riferimento ad autori più contemporanei come Tommaso di Ciaula, Angelo Ferracuti, Michela Murgia e Giuseppe Culicchia).

L’io narrante oscilla tra autobiografia e finzione. Il tono, volutamente caustico, si sposa a una scrittura tagliente, che asseconda i pugni (letterari) nello stomaco di Chuck Palahniuk e il radicalismo di William Burroughs. La gente per bene di Francesco Dezio, edito da Terrarossa (207 pp., 15 euro), è un’opera dalle mille sfaccettature e suggestioni. Lo stile, asciutto ed essenziale, ricorda la vena di certi autori americani della beat generation; ma si percepisce anche un omaggio ostentato ai padri nobili della letteratura industriale, filone che dal secondo dopoguerra non ha mai smesso di raccontare il mondo del lavoro dall’interno (nel romanzo risuonano soprattutto gli echi de La vita agra di Luciano Bianciardi e del Memoriale di Paolo Volponi, ma non manca anche qualche riferimento ad autori più contemporanei come Tommaso di Ciaula, Angelo Ferracuti, Michela Murgia e Giuseppe Culicchia).

Non potrebbe essere altrimenti: la biografia di Dezio racconta l’odissea di uno scrittore che si porta sul groppone il suo passato di operaio nell’affascinante scenario della Murgia barese, assai lontana dal capoluogo e soprannominata, in virtù della sua grande operosità, “il Veneto di Puglia”.

Ma se in Nicola Rubino è entrato in fabbrica (pubblicato da Feltrinelli nel 2004 e riproposto in una nuova veste da Terrarossa nel 2017) l’autore altamurano, quasi ergendosi a Cassandra dei tempi moderni, descrive senza indulgenza l’alba del precariato e il progressivo smantellamento delle tutele essenziali all’interno di quell’immenso alveare sociale che è la fabbrica, ne La Gente per bene affronta invece con uno stile più maturo, ma pur sempre protestatario, la compiuta polverizzazione del mondo del lavoro e l’incubo di chi, a quarant’anni e passa, si consuma nella speranza di reinventarsi di continuo (non di rado assecondando gli umori di tecnologie capricciose) ed è obbligato a confrontarsi con logiche lontanissime da quelle a cui erano abituate le generazioni precedenti.

Anche in questo caso la storia è ambientata nel territorio murgiano, dove i discendenti del “popolo di formiche” narrato da Tommaso Fiore si sono progressivamente trasformati in imprenditori attirati dai soldi facili per poi ritrovarsi, dopo il boom degli anni Novanta, schiacciati dalla crisi e dalla globalizzazione. Il personaggio principale, al quale l’autore presta il suo nome, si muove tra le pieghe di un mondo terribilmente classista all’interno del quale i privilegi (e il diritto di comandare) spettano al tono falsamente cordiale della “gente per bene”, che detiene per diritto di nascita lo scettro del potere e vive di continue ipocrisie. A lui, invece, estraneo ai circoli della buona borghesia, non resta che rinunciare alla letteratura, che pure ama, e aggrapparsi al sogno di lavorare come disegnatore meccanico. Scelta sofferta, ma pragmatica, che, in virtù delle ristrettezze mentali ed economiche di una famiglia vecchio stampo, lo porta ad accettare supinamente le conseguenze del “mondo di mezzo”: come nel caso del precedente romanzo, il protagonista si muove in una giungla di contratti a termine, regole flessibili a seconda delle convenienze e gerarchie rigidissime. Al vertice della piramide i padroni, sovente invisibili e intoccabili, dettano legge: ai sottoposti non resta che accettare il perpetuo ricatto, pena l’esclusione e il baratro della depressione.

Un inferno quotidiano privo di redenzione, che Dezio tratteggia con dovizia di particolari privilegiando il ritmo narrativo del reportage e avvalendosi di una scrittura capace di accogliere nel suo seno gergo e dialetto senza tuttavia sminuire il tono del racconto.

Ne vien fuori il ritratto sanguinante di una società abbandonata a se stessa  dai suoi attori principali: la politica anzitutto (sia nazionale che locale), ma anche l’imprenditoria, risvegliatasi bruscamente dopo l’ubriacatura degli anni d’oro e l’apertura delle frontiere: “Adesso invece gli industriali comprendono i limiti della globalizzazione, che non è solo esportare quello che sai fare tu, dal momento che quello che sai fare tu dura fino a quando  non arriva uno che quello che sai fare tu lo sa fare meno caro prima e meglio”, mormora uno dei personaggi della storia. E qui l’allusione nemmeno troppo velata è ai “cinesi maledetti”, che “si sono voluti accomodare sui divani, ma ci stavano seduti in troppi, e quelli, con un minimo colpo di culo, hanno fatto cadere a terra gli altri”.

Ma attraverso l’efficace affresco di Dezio si legge anche il disagio dei quaranta-cinquantenni di oggi, eternamente costretti a competere con la concorrenza sleale dei nuovi arrivati, spesso più giovani di loro e disposti a rinunciare ad alcuni diritti fondamentali pur di sopravvivere. Anche per questo durante la lettura, tra una risata e l’altra (sia essa amara o sguaiata), è consigliabile raffinare lo stomaco: il rischio, infatti, è quello di arrabbiarsi. E non poco.

Le dieci regole (punk) per gli sceneggiatori di Joe Eszterhas

Il celebre sceneggiatore e romanziere americano ha recentemente dettato alla rivistaMovieMaker le sue “10 regole d’oro per gli sceneggiatori“. Si noterà un certo livore nei confronti dell’attuale politica degli Studios hollywoodiani, ma tant’è. In pratica questo decalogo è a tutti gli effetti la versione punk delle normali regole di scrittura. Potrebbe essere sconsigliabile applicare questi consigli alla lettera. Poi fate voi.

 

Le dieci regole dello sceneggiatore di Joe Eszterhas:

1) Non guardate troppi film recenti. La maggior parte dei film che escono oggi sono spaventosi. Vi deprimeranno e arriverete a pensare: “Come hanno potuto portare sullo schermo questa sceneggiatura orribile, piuttosto che comprare la mia?” Risparmiatevi questa angoscia. Piuttosto leggete un buon libro.

2) Non usate mezzi termini. Se l’idea che vi ha suggerito un dirigente è una schifezza, non dite “Beh, questo è interessante”, ma dite: “Questa idea è davvero una merda.” Le persone con cui avete a che fare non sono stupide, sono solo futili. Al fondo del loro cuore sanno che la loro idea è una merda.

3) Non lasciate che vi convincano a cambiare quello che avete scritto. Un regista non è uno sceneggiatore e tanto meno lo sono un produttore o un dirigente. Voi vi guadagnate da vivere scrivendo, voi siete i professionisti, loro sono i dilettanti. I migliori dilettanti! Trattateli come tali. Fateli sentire esattamente così.

4) Non “pitchate” le vostre storie, scrivetele. Perché cercare di convincere una stanza piena di ignoranti egocentrici che si può scrivere una buona sceneggiatura su un particolare argomento? È sufficiente sedersi e scrivere questa maledetta storia. È molto più onesto fare qualcosa bene, piuttosto che promettere di fare bene.

5) Scrivete con il cuore. La vita è breve, molto più breve di quanto si pensi. Non lavorate come mercenari. Se vi vogliono assumere per scrivere qualcosa, fatelo solo se il lavoro ha una risonanza spirituale, psicologica o sessuale in voi.

6) Mentite sempre riguardo alla prima stesura. Io ho fatto finta che stavo lavorando alla sceneggiatura di Basic Instinct per anni quando l’ho venduto per una somma record. Quando il film è diventato il più grande successo commerciale del 1992, ho detto la verità: ci sono voluti appena tredici giorni a scriverlo.

7) Ricordatevi dei segreti di famiglia. Se vi trovate in ​​difficoltà e non sapete cosa scrivere, pensate a tutte quelle cose di cui non si parla nella vostra famiglia. Da qualche parte lì si trova almeno una buona sceneggiatura.

8) Di fronte al regista, non vi piegate. Non importa quanto sia affascinante, il regista non è un vostro amico o un vostro collega. Il regista è il vostro nemico. Vuole imporre la sua visione creativa rispetto alla vostra. Vuole prendere quello che avete scritto, assumerne la proprietà e prendersi tutto il merito.

9) Annerite un po’ il vostro cuore. Il mio vecchio e molto costoso agente, Guy McElwaine, mi disse: “Non c’è cuore più nero del cuore nero di un agente.” Anche se è stato il mio agente per lungo tempo e anche se mi è veramente piaciuto, è venuto un giorno in cui gli ho voltato le spalle.

10) Non lasciate che i bastardi vi scoraggino. Se non riuscite a vendere lo script, o se vendete la sceneggiatura, ma quelli assumono un altro sceneggiatore per massacrare il vostro lavoro, o se il regista si attribuisce tutto il merito della scrittura nelle interviste, o se gli attori pretendono di avere improvvisato le vostre battute migliori, o se siete messi in disparte alle conferenze stampa. Sedetevi e scrivete un’altra sceneggiatura. E se la stessa disgrazia vi succede con quella, scrivetene un’altra e un’altra ancora fino a quando non ne avrete una che un regista porterà sul grande schermo, ma con la vostra visione.

Erano le dieci regole di Joe Eszterhas per non diventare (o per non rimanere) sceneggiatori. Non confondete mai fiducia in voi stessi e arroganza, giovani Padawans, o potreste bruciarvi…

Tratto da  http://www.scenario-buzz.com

Traduzione e adattamento a cura di Aaron Ariotti.

L’articolo tradotto, invece, è tratto da qui.

LA PESTE di Albert Camus e la fragilità di chi si accosta alla scrittura — VITA DA EDITOR

Tra i tanti memorabili personaggi del capolavoro di Albert Camus, La peste, c’è un modesto impiegato comunale con velleità letterarie, Grand; qui di seguito un suo dialogo con il medico Rieux in cui emergono tutta l’incertezza e la fragilità di chi si accosta umilmente alla scrittura. Il brano è tratto dall’edizione dei Grandi Tascabili Bompiani […]

via LA PESTE di Albert Camus e la fragilità di chi si accosta alla scrittura — VITA DA EDITOR

Forchetta e coltello

Di Alessandro Lupelli

 

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Ad un importante cena dell’aristocrazia inglese, lo sguardo della forchetta e del coltello si incrociano imbarazzati: “Stai ammirando il mio profilo migliore, cara forchetta, i miei dentini non sono mai stati così splendidi. Pure i tuoi rebbi non sono da meno”.

“Grazie caro”, ricambia la forchetta, “ammetto che non sei mai stato così affilato e in forma come stasera”. Maneggiati in una serata di gala da quegli aristocratici, forchetta e coltello collaborano tra loro per rendersi il più possibile utili e funzionali.

La battaglia dei punti

Di Giuseppe Ferraro e Alessandro Barone

punteggiatura

Un punto interrogativo, un giorno, girovagando per la Città dei Puntini con aria dubbiosa, chiese a un punto e virgola quale fosse il bar dei punti di sospensione ed egli disse di imboccare via delle virgolette e di fermarsi al numero civico 16 di quest’ultima. Arrivato al locale, il punto interrogativo incontrò il suo acerrimo rivale: il punto esclamativo.

Loro si odiavano poiché entrambi credevano di essere più importanti dell’altro. Questo incontro non fu diverso dagli altri e finirono nuovamente ad accusarsi l’un con l’altro di essere inutili. Iniziò il punto interrogativo dicendo: “Ancora tu? Ti trovo ovunque vada, ormai! E ogni volta devo ricordarti di quanto tu sia inutile! Senza di me, ad esempio, non potresti formulare domande. Tu, invece, a cosa servi?” E il punto esclamativo rispose: “Devo ripetertelo ancora? Senza di me le frasi non avrebbero colore, sarebbero vacue e insignificanti e il Mondo dei Punti sarebbe un luogo triste.” E ancora il punto interrogativo: “Si può vivere in un mondo triste, ma non si può vivere in un mondo dove non puoi fare domande!” E in quell’istante sopraggiunse il padre di tutti i Puntini: il Punto, che li rimproverò e disse: “figli miei voi litigate e vi accusate di essere inutili, ma non capite che il nostro mondo non sarebbe lo stesso senza i benefici apportati dall’uno e dall’altro.” A queste parole, i due si calmarono e capirono le parole del Punto. Allora si offrirono da bere e uscirono insieme per chiacchierare. Si sedettero su una panchina del Lungomare dei Due Punti e lì incontrarono Fra Parentesi, un frate che aveva assistito al litigio e che gli disse: “Figlioli, al bar dei punti di sospensione, vi ho visti litigare, mai avrei pensato di ritrovarvi qui seduti su queste panchine per chiacchierare insieme! Sono felice che voi abbiate fatto pace e vi auguro il meglio.”

E così dicendo Fra Parentesi se ne andò felice al convento dei frati Parentesiani. Da allora i due punti smisero di litigare e non vi furono più disguidi fra gli abitanti della Città dei Puntini.

Il mondo del futuro

Di Gabriele Mariella e Giuseppe Marco Tognetti

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In un futuro non troppo lontano l’uomo decise di affidare interamente il proprio destino al Progetto GAIA, un’intelligenza artificiale che avrebbe provveduto a ricostruire la biosfera e a far tornare in vita gli organismi grazie ai suoi programmi: MINERVA per generare i codici in grado di fare assistenza alle macchine, EFESTO che avrebbe creato macchine per sviluppare il lavoro previsto per il Progetto GAIA, ETERE che avrebbe purificato l’aria, POSEIDONE che avrebbe ripulito i mari, DEMETRA che avrebbe consentito il rimboschimento attraverso banchi di semi criopreservati, ARTEMIDE che avrebbe provveduto a ripopolare la fauna terrestre, ILIZIA che avrebbe rigenerato esseri umani incubati in Centri Culla, APOLLO, che invece sarebbe stata la memoria collettiva del genere umano, un immenso archivio che comprendeva tutti i campi del Sapere consultabile da chiunque.

Le macchine avrebbero fatto TUTTO al posto dell’uomo.

GAIA era un progetto in via sperimentale, per niente sicuro, infatti, ben presto, prese la piega sbagliata: le macchine iniziarono a distruggere qualsiasi forma di vita, compresi gli esseri umani e ciò che fino ad allora avevano creato.

L’intelligenza artificiale prese il sopravvento e per l’uomo non ci fu più alcuna speranza in quanto non aveva i mezzi tecnologici per poter fronteggiare o controllare questa minaccia. Inoltre, aveva dei limiti fisici per poter reagire. Infatti, milioni, anzi miliardi di persone morirono nel giro di poche ore.

L’intero mondo, quale noi lo conosciamo, venne DISINTEGRATO.

Inoltre, queste macchine riuscivano a viaggiare nel tempo, così tutti i robot presenti sulla Terra si trasferirono nel futuro, su altri pianeti, per poter continuare la propria opera di invasione e distruzione.

Quanto al Pianeta Azzurro era ormai un deserto.

Eppure, anche la Scienza e la Tecnologia hanno i loro limiti: quei macchinari elettronici o meccanici tanto sofisticati avevano anche loro un ciclo di vita, ben presto iniziarono a rompersi, a sconnettersi, a bloccarsi e non c’erano risorse energetiche che potessero consentire loro di rigenerarsi.

E così, scomparirono anche loro.

E la natura è più forte, anche della Scienza stessa.

Così la Vita poté ripartire da zero, si formarono nuovi microorganismi che presero nuovamente possesso delle acque, del suolo terrestre. Flora e fauna ripopolarono il pianeta. Come pure l’umanità che, stavolta, evitò di dare tutto il potere alle macchine, concependo delle intelligenze artificiali che non potessero MAI superare quella dell’uomo stesso.

Follow your happiness

Di Francesca Santoro

ammi_19.-CARILLON-BALLERINA-IN-PIEDI

“Ma non ti stanchi mai?,” chiese il soldatino alla piccola ballerina del carillon, che girava e girava in quella scatoletta, senza mai fermarsi.

“Perché dovrei stancarmi?,” rispose la ballerina con un’altra domanda. Lei era sempre stata così, schiva e riservata: quando un giocattolo voleva sapere qualcosa sul suo conto, ella rispondeva con un’altra domanda: l’appariscente tutù rosa non rispecchiava affatto il suo carattere.

“Smettila di fissarmi così,” disse la ballerina.

“In che senso?”

“Smettila di guardarmi come se fossi un giocattolo malriuscito”.

Di solito le ballerine dovrebbero essere tutte carine e gentili ma questa è proprio acida, pensò il soldatino. “Non potresti dire semplicemente che ti piace ballare?,” rispose infastidito. Lui, infatti, aveva notato che lei pensava troppo a sé stessa (in questo era esattamente identica alle altre ballerine che aveva conosciuto).

“Non amo affatto ballare,” rispose ella dopo un lungo silenzio. “Lo faccio solo perché mi hanno imposto di farlo.”

La voce della ballerina era malinconica e il soldatino sentì risalire un brivido per la schiena di plastica. Ella aveva ripreso a danzare a suon di musica, dolcissima. Il soldatino la guardava con adorazione e sapeva che avrebbe sentito altri fremiti nel suo corpicino di plastica se lei gli avesse risposto ancora.

“Perché non smetti allora?,” le disse.

“Te l’ho detto, non dipende dalla mia volontà. Se smettessi diverrei un oggetto inutile: un canarino può vivere senza la sua voce?”

Il soldatino non capì a cosa si stesse riferendo. “Si, potrebbe vivere,” rispose.

“Ovvio, ma se non può fare ciò a cui è predestinato, a che serve?”

“Nessuno dovrebbe poter determinare il destino degli altri.”

La ballerina si fermò. I suoi occhi verdi fissavano il soldatino, forse per la prima volta. Lei poteva smettere di ballare solo quando la scatoletta veniva chiusa, eppure si era fermata.

La ballerina si posizionò accanto al soldatino, che fino ad allora era seduto sulla scrivania.

“Il nostro futuro non lo scegliamo noi, certo possiamo fare delle scelte ma gli altri modelleranno sempre quello che fai. Qualcun altro decide per noi. Credi mi faccia piacere vivere tutto il tempo confinata in una scatoletta?”

La ballerina si sedette accanto al soldatino.

“E cosa vorresti fare?”

“Non lo so, da quando sono nel carillon la mia mente è abitata dal pensiero fisso di ballare. Non so cos’altro potrei fare…” rispose abbassando lo sguardo.

La musica era cessata da un po’. Il silenzio li avvolse come una soffice coperta. Egli non poté far altro che osservare la sua pura bellezza, e una lacrima che scendeva lungo la rosea guancia di lei. Poi il soldatino saltò in piedi, si avvicinò alla ballerina e l’avvicinò a sé. “Hai mai avuto un sogno?”

Le loro fronti adesso si toccavano, illuminate dal chiarore lunare.

“Sì, andare avanti e proseguire per la mia strada, senza alcun rimpianto.”

Il soldatino sorrise: “Allora fai quel che ti rende felice, senza aver paura di sbagliare”.

La musica era tornata.

La ballerina danzava di nuovo, leggiadramente, su un motivo il cui testo narrava di eroi coraggiosi che, nella loro scintillante armatura, salvavano principesse bisognose d’aiuto.

Come se fosse stata colpita da un ricordo, la ballerina si fermò ancora: il silenzio prese subito il possesso della stanza.

Perchè ha smesso di ballare?, pensò, confuso, il soldatino.

Lei bisbigliò, con labbra di un rosa lucido: Fa quel che ti rende felice.

Adesso il soldatino la guardava con disperazione: era apparsa una grande mano che la sollevava per farla cadere in un sacchetto. Prima, però, i due si erano lanciati un ultimo sguardo.

Lei era contenta.

Lui era perduto.