Di Mariella Sivo
La gente per bene di Francesco Dezio, ediz. Terrarossa, è un finto reportage mascherato da diario, una “biografia di fatti non accaduti, inventati o deformati nel flusso della narrazione”.
Così scrive Francesco Dezio all’inizio del suo romanzo, in cui “luoghi ed aziende descritti sono trasposizioni narrative di eventuali realtà esistenti”.
L’io narrante è un personaggio che va raccontando, tra gergo e letterarietà, tra rabbia e ironia, la sua verità emotiva e non fattuale di disoccupato cronico, “di chi si è abituato a non avere niente, a ridurre i bisogni a zero”.
Non un’autobiografia, quindi, ma un memoir che va avanti e indietro nel tempo interiore per ricostruire gli eventi di un paese in necrosi, a crescita zero e cultura niente. Francesco, il protagonista, appartiene a quella generazione di choosy, sfigati, bamboccioni, poco occupabili, tanto per citare alcune delle carezze ministeriali riservate a tutti coloro che giornalmente incontrano difficoltà nella ricerca di un lavoro, privati di un reale appoggio da parte dello Stato.
Il titolo del romanzo si ispira ad una frase tratta da “Il lavoro culturale” di Luciano Bianciardi, autore che si inserisce nel filone della “letteratura industriale”, cui pure questo romanzo appartiene. La letteratura industriale nasce tra gli anni ‘50 e ‘60, periodo in cui la fabbrica, vista come inferno alienante, fa da controcanto rispetto alle magnifiche sorti dell’Italia del boom economico, paese che si riscopre a vocazione industriale. Ad eccezione del Futurismo, che esaltò gasometri e periferie, la maggior parte della letteratura, che si è occupata di nastri trasportatori e catene di montaggio, ha proposto un’interpretazione degenerante del fenomeno.
Francesco, padre imbianchino ed infanzia disfunzionale, parte dal narrare le vicende del nonno materno, ai tempi in cui il governo De Gasperi, per stroncare il malcontento del mondo bracciantile, varò un imponente progetto di riforma agraria, la più importante riforma del secondo dopoguerra, in base alla quale avvenivano contestualmente l’esproprio coatto ai latifondisti e la ridistribuzione delle terre ai braccianti. L’Ente Riforma Fondiaria fece poi costruire dei fabbricati, le case coloniche oggigiorno ridotte a ruderi. Ma “più che una speranza di miglioramento, lo Stato gli aveva regalato un ordinario diversivo al grattarsi i pidocchi: i lavori forzati. Hai voglia a spietrare!” Perché la Murgia non è altro che dune pietrose, un non-luogo, un niente erbaceo, che, nel silenzio delle istituzioni e dell’opinione pubblica, è caduta nel tranello dei soldi facili, ha ceduto alle lusinghe ecocompatibili del silicio in Salento e dell’eolico più a Nord. Il tutto con l’avallo delle politiche ecologiste di Vendola. Così scrive l’Autore, passando dalla coltivazione infruttuosa della campagna, dai redditi irrisori derivanti dal lavoro della terra, al “divanimperio” capeggiato dal Natalino Matucci, “l’uomo che il Wall Street Journal ha definito il Gianni Agnelli pugliese”, che ha saputo cogliere il momento propizio facendo del salotto il fulcro dell’ecosistema casalingo, ma che non è stato abbastanza furbo da cogliere i segnali della crisi economica. “La crisi c’è ma nessuno deve permettesi di nominarla. Va tutto a gonfie vele, anzi, è questo che devono credere tutti”, sostiene Matucci facendo il verso a Berlusconi, nano malefico, quando chiedeva “ma dove vedete la crisi se i ristoranti sono pieni?”.
E poi ci sono le vicissitudini personali di Francesco, a cominciare dalla scelta della scuola media secondaria: “non ero nato in una buona famiglia e questo bloccava qualunque strada scegliessi”.
È la storia dei subumani, di chi vive inviando per e-mail il curriculum alla ricerca di un impiego alle dipendenze di un imprenditore che, con tutte le leggi accazzisuoi che gli hanno preparato gli amichetti al governo, può fare soltanto una cosa: dargli una bella bastonata in testa.
Dezio denuncia una realtà lavorativa allucinante, alienante, l’assenza sul territorio di un’azienda vera. Ci si riduce, nel suo caso, di grafico meccanico, ad essere dei manovali del computer e basta.
È il destino dei vinti di verghiana memoria,per cui tutto il percorso “di maturando, laureando, specializzando, servirà solo per metterti a servizio di uno che si è fermato alla terza media” ed ha avuto la furbizia e la fortuna di metter su un’impresa specializzata e “produrre sempre la stessa cazzata destinata a svanire nel nulla”.
Un mondo del lavoro martoriato dalla piaga della flessibilità, dell’utilizzo improprio della Partita IVA e del contratto Voucher, strumenti che avrebbero dovuto incrementare l’occupazione grazie ai contratti poco vincolanti e meno costosi a livello previdenziale, ma che si sono rivelati mero strumento di risparmio da parte delle aziende, strumento di crescita del precariato, con l’aggiramento delle tutele valide per il lavoratore dipendete diretto.
L’Autore denuncia, inoltre, la presenza di redditi salariali bassi che compongono l’impossibilità di accumulare sufficienti risparmi per affrontare in sicurezza i periodi di disoccupazione “fino al prossimo inferno pseudo lavorativo”.
Ciò espone il lavoratore al rischio di dover accettare giocoforza lavori ancora più flessibili e meno remunerativi, pur di avere un reddito con cui provvedere alla propria sussistenza, creando una forma di retroazione che accentua ulteriormente i problemi derivanti dalla precarietà.
Un genere di scrittura, quella di Dezio, che trae linfa dai fermenti putrefattivi della società e manifesta la sua natura politecnica, il suo procedere di sponda con varie discipline: meccanica, informatica, economia, pubblicità, design, …
Un romanzo che è un’altalena narrativa e che vede prima affermarsi la civiltà tecnologica come soddisfacimento dei bisogni primari e poi le operazioni di smontaggio delle fabbriche. Una scrittura a metà strada tra invenzione e matrice documentaria, sicuramente con intenti di denuncia sociale, nonostante vi sia la consapevolezza, da parte dell’Autore, che soltanto la civiltà della fabbrica abbia potuto ridare dignità alle classi meno agiate, specie al Sud, restituendo quella che Calvino definiva “una via di libertà”, un’idea di lavoro quale veicolo di riscatto, di fuga da una condizione subalterna che si manifestava all’interno del panorama della questione meridionale, nelle ragioni conflittuali tra latifondo, riforma agraria ed emigrazione.
Dezio descrive una realtà che cambia pelle, si modifica, prefigura la definita trasformazione del lavoro fino alla crisi profonda di oggi, in cui il tema della flessibilità fa rima con precarietà, in cui i partiti politici sono distaccati dalla base popolare, sono vuoti centri di potere, in cui l’egoismo metodologico delle banche incatena. Cosa resta da fare? Trincerarsi nel bunker virtuale di un individualismo debole, consegnarsi alle logiche dell’homo oeconomicus o spendere la vita su Facebook, sperando che la politica recuperi gli antichi legami con i sogni?
Il protagonista oppone resistenza al tentativo da parte del sistema di rendere gli individui numeri, utensili, riconosciuti solo per il grado di techné posseduta, non aderisce al modello di comunità abitata da individui massificati, “atomi sociali senza avvenire” citando Natalia Ginzburg in “Lessico famigliare”. Racconta il mondo del lavoro dal di dentro, dall’intestino, scegliendo “il perimetro aziendale come luogo fisico ed elettivo del male”, un tetro capannone fordista lontano anni luce dagli spazi umanistici dell’olivettismo, che voleva la fabbrica produttrice di bene, non solo di beni. Appare come una testimonianza eloquente di un’esistenza condotta in modo ribelle e disordinato, fuori dagli schemi comunemente accettati, ai margini di una società che non si cura dell’individuo, che fagocita coloro che non si arrendono e chiunque non si adegui alle necessità della finanza e della produzione sfrenata che alimenta in modo abnorme l’accumulo di ricchezza, i consumi che finiscono per diventare vani e fini a se stessi.
Francesco è contrario alla filosofia dell’accontentarsi perché ciò significherebbe amplificare l’immobilità sociale e le diseguaglianze, nonostante i disagi, il malcontento, la frustrazione riconosciuta nel riempire tutte le ore disponibili postando cazzate su Facebook.
La gente per bene è un romanzo scomodo, picaresco e incazzato, come lo ha definito Antonio Moresco. È una ribellione contro l’establishment politico-culturale, obbedendo all’esortazione di Michel Houellebecq di affondare il coltello negli argomenti di cui la gente non vuol sentir parlare, perché bisogna essere abbietti per essere veri.
Lo stile è anticonformista, capace di far sorridere mentre dice qualcosa di serio e grave. Stile aspro, diretto, talvolta così crudo da sfiorare i limiti della sgradevolezza avvertibile sul piano fisico, privo di edulcorazioni, estremamente accurato nella scelta lessicale. È uno stile utile per dire quello che devi dire (Bukowski). Dezio utilizza la forma del linguaggio parlato in forma scritta, il gergo della strada, animandolo in periodi brevi e concisi, non banali, che lasciano spazio al contesto, riducendo al minimo le descrizioni.